Finalmente si incomincia a ragionare di transizione energetica in maniera più pragmatica e razionale.
Negli ultimi vent’anni il mondo occidentale e soprattutto l’Europa sono stati investiti da un’ondata ideologica di estremismo ambientalista che, al di fuori di ogni atteggiamento razionale, ha pervaso l’opinione pubblica condizionando le scelte politiche, gli atti amministrativi, i regolamenti.
La vittima di questa situazione è stata soprattutto l’industria.
Le imprese europee e italiane sono per la decarbonizzazione e per la lotta al climate change. Moltissime imprese e settori sono quotidianamente impegnati per raggiungere, grazie alle nuove tecnologie, il risparmio energetico, la digitalizzazione e una migliore sostenibilità.
Purtroppo di questo impegno non è stato preso atto, e la propaganda e l’ideologia hanno prevalso.
Abbiamo scritto più volte su queste pagine che gli anni da cui veniamo per quanto riguarda le scelte europee sull’industria sono stati molto difficili. Un’Europa tutta concentrata sulla finanza, sulla disciplina fiscale, sul cambiamento climatico è sembrata non avere alcuna attenzione né passione per l’industria manifatturiera e in particolare per quella di base. Un’impostazione per così dire nordica, di Paesi ormai senza industria (in particolare Olanda e Danimarca) che importano tutto e che quindi, accanto ad un mercatismo estremista, sono ideologicamente votati a politiche ambientali e di transizione energetica che spesso non tengono conto della realtà.
L’opinione pubblica, e conseguentemente le scelte politiche, sono state intrise in questi anni di un ambientalismo ideologico e radicale che si è trasformato nella religione neopagana del nostro tempo, che demonizza le imprese, il capitalismo, il progresso economico, che sottovaluta la tecnologia e predice un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.
Ma oggi, forse, qualcosa sembra cambiare.
Le recenti conclusioni della Cop28 confermano l’impegno dei governi ad abbandonare i fossili entro il 2050, ma lo fanno però con un approccio pragmatico e gradualista alla transizione.
In particolare della grande convention di Dubai colpiscono diverse cose.
La scelta dei termini innanzitutto (i latini dicevano è nel nome la natura delle cose); alla fine è passata la dizione “transition away” piuttosto che quella più drastica che molti, in particolare alcuni Stati europei, volevano imporre, di “phase out”.
La dizione scelta è dal mio punto di vista più corretta. Infatti si tratta effettivamente di organizzare una transizione estremamente impegnativa e difficile nella quale il gas avrà un ruolo insostituibile.
È bene ricordare che i combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) rappresentano oggi più dell’80% del totale dell’energia utilizzata nel mondo. Sostituire tutta questa energia con le rinnovabili appare arduo. Come si vedrà nel seguito di questo articolo, il 2023 ha visto il picco storico nel consumo di carbone: oltre 8,5 miliardi di tonnellate, un record mai raggiunto.
Inoltre, altro fatto importantissimo delle conclusioni del Cop 28, dopo anni di veti ambientalisti ci si è resi conto che il processo di decarbonizzazione ha bisogno anche dell’energia nucleare, che è l’unica opzione concreta in grado di fornire energia elettrica in grande quantità e in maniera continua. Bisogna sempre ricordare che il fotovoltaico e l’eolico sono processi non programmabili e discontinui. In altri termini è stato ribadito il concetto, a suo tempo già espresso da Draghi, allora presidente del Consiglio, alla precedente Cop di Glasgow che le rinnovabili vanno bene, vanno potenziate al massimo, ma non bastano.
Inoltre è emersa con forza a Dubai la grande contraddizione e contrapposizione tra nord e sud del mondo. Un sud del mondo diventato ancor più importante per il protagonismo di una superpotenza come la Cina e di potenze emergenti come India e Brasile.
È stato rappresentato l’enorme, disperato bisogno di energia di miliardi di persone che vivono fuori dagli Usa e dall’UE e che ne hanno bisogno per uscire dalla povertà e guadagnarsi un minimo di benessere. Oggi in tutto il mondo quasi 800 milioni di persone vivono senza alcun accesso all’elettricità; 600 milioni di queste sono in Africa.
È stato ricordato dall’‘Economist’ qualche settimana fa che un frigorifero occidentale consuma tanta energia quanto un abitante medio dell’Africa, e che non ci si può stupire se Cina, India, Indonesia continuano a costruire centrali a carbone che è il combustibile a più buon mercato. Per questi Paesi e per molti altri del sud del mondo vale la famosa considerazione di Indira Gandhi “…peggio dell’inquinamento c’è la povertà”.
In questo clima più ragionevole, gradualista, pragmatico incominciano ad emergere anche le enormi contraddizioni di un’impostazione estremista e ideologica alla transizione. Facciamo qualche esempio.
Partiamo proprio dal carbone. I consumi di carbone sono, come si diceva, ancora aumentati nel 2023.
Il paradosso, la contraddizione, è che una delle cause principali di questo incredibile aumento di consumi di carbone è costituita proprio dal gigantesco fabbisogno di metalli dipendente dalla transizione energetica.
Il paese che registra il maggior tasso di crescita nella produzione, utilizzo e esportazione di carbone è l’Indonesia. E ciò è dovuto all’enorme sviluppo della produzione di nickel, un metallo sempre più richiesto per l’impiego nelle batterie che rappresentano uno dei pilastri fondamentali su cui poggiano le strategie di decarbonizzazione perché servono nelle auto elettriche e anche come accumuli per compensare l’intermittenza delle energie rinnovabili ricavate dal sole e dal vento.
Per ovviare alla scarsa purezza del nickel indonesiano viene impiegata una tecnica nota come HPAL (High Pressure Acid Leach o liscivazione acida ad alta pressione) che implica l’uso di acido solforico a temperature elevatissime con grande dispendio di energia (cioè carbone, ovviamente) con le connesse enormi emissioni di CO2.
L’Indonesia è oggi il primo produttore di nickel al mondo, anche grazie ad ingentissimi investimenti cinesi con i quali sono stati realizzati molti impianti di lavorazioni del metallo diretti a servire in modo specifico il mercato delle batterie delle auto elettriche.
Questa situazione ha fatto si che Giakarta abbia registrato, negli ultimi due anni, un aumento del 44% della domanda di carbone. In nessun altro paese al mondo si registrano tassi di crescita così importanti anche se, in valori assoluti, è la Cina che fa la parte del leone con oltre il 50% di tutto il carbone consumato a livello mondiale.
Anche l’India brucia sempre più carbone, e così il resto dell’Asia, che ormai conta più di tre quarti della domanda mondiale di questa materia prima, e che l’ha spinta agli 8,5 miliardi di tonnellate/anno di cui si è detto, nonostante un calo di consumi negli Usa e in Europa di oltre il 20% negli ultimi anni.
Altro caso paradossale è quello del litio.
Il primo problema del litio è l’enorme consumo di acqua impiegata nel processo di estrazione, si parla di 1,8 milioni di litri di acqua per tonnellata di litio estratto. Nelle saline sudamericane (Cile, Perù, Bolivia, che sono aree privilegiate per l’estrazione del litio) lo squilibrio idrico ha provocato un aumento della siccità e della desertificazione. Si sono registrati moltissimi casi di contaminazione dovuti alle sostanze tossiche utilizzate nell’attività estrattiva, che hanno contribuito a un’ulteriore impoverimento e inquinamento delle falde acquifere.
Uno dei casi più critici è quello del Salar di Atacama, lago salino dal quale si estrae il 40% della produzione mondiale di litio. Qui le attività di estrazione hanno consumato il 65% della quantità d’acqua presente, aggravando la crisi idrica che il Cile sta fronteggiando.
L’impatto ambientale dell’industria del litio riguarda anche le emissioni di CO2 che variano dalle 5 alle 15 tonnellate di CO2 emessa per singola tonnellata di litio estratto.
Per dare un ordine di grandezza la produzione di una tonnellata di acciaio da ciclo integrale (cioè con l’altoforno e il carbone) emette 2 tonnellate di CO2; se invece l’acciaio è prodotto con la tecnologia del forno elettrico e del rottame le emissioni sono di 0,2 tonnellate per tonnellata di acciaio così prodotto.
Quindi la produzione di una tonnellata di litio provoca emissioni di CO2 enormemente più grandi di quelle generate dalla produzione di acciaio anche qualora l’acciaio sia prodotto con il carbone; e di questo si sente parlare poco o nulla.
Ovviamente va tenuto presente che fino ad oggi le produzioni mondiali di litio sono quantitativamente molto meno importanti della produzione mondiale di acciaio.
Secondo diversi analisti le emissioni di CO2 derivanti dalla estrazione, lavorazione e trasporto del litio sono destinate a triplicare entro il 2025 e a crescere di 6 volte entro il 2030. Sempre secondo molti analisti l’aumento delle emissioni dovute al processo di produzione delle batterie (oggi tutte fatte con il litio) ridurrebbe di molto i benefici climatici dovuti all’utilizzo di veicoli elettrici.
Cosa vogliamo dire con questi esempi? Che nonostante alcuni studi e alcune riviste scientifiche abbiano cercato di ragionare in termini di Life Cycle Assessment (Analisi del ciclo di vita), che è una metodologia che valuta l’impronta ambientale di un prodotto/servizio lungo il suo intero ciclo di vita, spaziando dalle fasi di estrazione delle materie prime costituenti il prodotto, alla sua produzione, alla sua distribuzione, uso e dismissione finale, e restituendo alla fine dell’analisi i valori complessivi di impatto ambientale associati al ciclo di vita, questo metodo è stato poco o nulla utilizzato.
L’ideologia di una sola via alla decarbonizzazione, il rifiuto del principio di neutralità tecnologica (tutte le tecnologie vanno bene se decarbonizzano), il rifiuto ideologico di alcune tecnologie quali il nucleare o la cattura e l’utilizzo delle CO2 hanno condotto soprattutto l’Europa in una situazione di grave rischio di deindustrializzazione.
Solo recentemente si sono corretti gli errori più macroscopici di un’impostazione estrema ma se non si mettono al centro la sopravvivenza e la competitività delle imprese il rischio di delocalizzazioni o chiusure resta tutto.
Bisogna reagire a questa deriva che porta solo al declino e alla miseria. Senza imprese e senza tecnologie non vi sarà mai alcuna decarbonizzazione.
È l’industria il futuro dell’Europa e dell’Italia!
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